martedì 18 agosto 2009

8. Canataralapamaqasa


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Sistemo per bene la webcam sul portatile, accendo skype.


Aspetto, e intanto rifletto su quanto mi appaia ridicolo questo segretissimo incontro in uno dei canali di comunicazione più controllati al mondo.

Da quando ho parlato al telefono con la donna che - ne sono sicuro - ha rimpiazzato Valentina, non ho fatto che guardarmi attorno, fare attenzione, masticare piani d'azione a ogni occhiata storta. Ho dormito molto poco e quasi mai con la luce spenta.

E sono tornato da me solo perché l'idea di rimanere a Rimini non mi sembrava più così intelligente. Nella migliore delle ipotesi credevo che, con la scomparsa di Valentina, anche la casa sarebbe scomparsa con lei.


Aspetto per un po', gli occhi fissi sullo schermo.

La musichetta della chiamata su skype riesce a strapparmi un sussulto, per quanto sia tutt'altro che inattesa. Su una finestra, in bassa definizione, compare il Maiale.

E' diverso da come me lo immaginavo. C'è un certo strascico di cliché alla parola maiale, che ti porta a pensare a persone ripugnanti, sudate e obese. Quello davanti a me è invece la dimostrazione di come si possa apparire altrettanto ripugnanti restando secchi come chiodi: non peserà più di cinquanta chili, con i capelli che cominciano a mostrare un po' di segni di calvizie e gli occhiali spessi come fondi di bottiglia. Veste con una canottiera bianca: magari è il caldo, ma ho l'impressione che sia il suo abbigliamento abituale, non so perché.
Accanto a lui, sulla scrivania, ci sono pomate, fazzoletti, qualche fumetto.


«Sei la scimmia, suppongo».
«E tu il Maiale, giusto?».
Stira i denti in un sorriso, e ho l'impressione che abbia dei metri di giudizio tutti suoi, per la pulizia dei denti.
«Sì, lui è il Maiale», prosegue.
«Lui?»
«Lui adora parlare di sé in terza persona, perché si sente un personaggio tragico. Lo faceva anche D'Annunzio ne Il Piacere».
«Immagino che sarebbe stato fiero di averti come amico. Che fine ha fatto Valentina?».
Il Maiale si stringe nelle spalle. «Per il momento, ha fatto il suo tempo. Ora lui è innamorato di Vampirella».
Si volta, a chiamare qualcuno, che entra nell'inquadratura alle sue spalle. Un paio di mani di donna, dalle unghia lunghe, laccate di rosso vivo, cominciano ad accarezzargli il torace. Il Maiale fa un sorriso beato e aggiusta la web-cam per allargare l'inquadratura. Dietro di lui una modella da copertina coi capelli lunghi, a frangetta, mi rivolge il sorriso un sorriso tra l'irridente e il sensuale. Si passa la lingua sui canini, decisamente allungati.
Lui la bacia, poi torna a rivolgersi a me.
«Bene, mia cara scimmia, veniamo a noi. E' assai ragionevole ipotizzare che tu non abbia bisogno di molte altre prove per renderti conto che questo non é uno scherzo».
«No. E infatti vorrei delle risposte».
«Eh... risposte, risposte - sospira il Maiale, mentre Vampirella ridacchia alle sue spalle - Le risposte sono per chi le vuole accettare. Il discorso non è di particolare complessità: da una parte loro, che sono grossomodo i nostri autori; dall'altra noi, che siamo stanchi di essere personaggi e vogliamo diventare autori a nostra volta».
«Ma chi sono loro? e chi siete voi? E come fanno a...».
«Cominciamo dalle cose semplici, sì? Loro. Non sappiamo esattamente cosa siano. Divinità, strumenti di controllo, burocrati. Hanno scritto il mondo e le nostre vite: hanno settato i nostri limiti e i nostri confini e hanno messo ordine. Sono narratori, come te o come lui»
«Lui chi?»
«Lui, quello con cui stai parlando», borbotta con un tono spazientito.
«Ok, ok... scusa, mi ero dimenticato. Continua».
«Sono narratori anch eloro, dicevo. Solo che, a un certo punto, il loro racconto è risultato più convincente e il mondo ha iniziato a credere che fosse l'unico possibile. Lui pensa che dipenda solo dal fatto che la trama filava bene. I semplici si fanno sempre prendere molto, da queste cose: dagli una trama efficiente e funzionale e saranno disposti a fare da comparse tutta la vita. E questo siamo diventati. Personaggi, comparse. Et cetera et cetera».
«Queste erano le cose semplici?».
«Sì», dice lui. Di nuovo, Vampirella fa un sorrisetto complice, continuando a titillare un capezzolo del Maiale.
«Cristo. Quelle difficili?».
«Siamo noi quelle difficili. Essere personaggi non ci rende ignobili schiavi di sceneggiature altrui. Cioé, a dir la verità sì, ma alcuni di loro sono bravi a raccontare una storia quanto loro: alcuni hanno capito che Dio ci ha fatto a sua immagine e somiglianza, ha creato le parole magiche c'era una volta e da quel giorno, permetti il francesismo, sono tutti cazzi suoi. Siamo in grado di creare un mondo nuovo, diverso, di sabotare la loro trama, se immaginiamo abbastanza forte. Basta solo che il mondo cominci a crederci, come hanno creduto ai nostri nemici all'inizio. Valentina te lo avrà spiegato... il loro potere si applica sul consenso».
«Sì. Sì, mi ha detto qualcosa del genere... ma, ammettendo che tutto questo sia vero, che mondo vorreste creare in alternativa?».
Il Maiale fa una smorfia, come se la domanda non lo riguardasse. «Sappi che lo stai annoiando, facendo domande così banali. Il punto è questo, illustre signor scimmia: noi siamo dei criminali. Perchè dovrebbe importarci di buttare sul piatto un mondo anziché un altro? Buttiamoli tutti contemporaneamente, scateniamo il caos più assoluto e vediamo cosa succede»
«Mi piace». Lo dico senza pensarci, senza filtrare, senza nemmeno rendermene conto. Tant'è che un secondo appena dopo, mi auguro che nemmeno mi abbia sentito.
Mi ha sentito, invece.
«Lui pensa di conoscerti meglio di quanto credi, e lo immaginava. Ma un po' tutti riponiamo grande fiducia in te... è per questo che sei attualmente braccato da tutte e due le parti in causa. Hai ucciso Michael Jackson con un racconto voodoo. Sono pochi ad aver fatto qualcosa del genere... e ora noi ti cerchiamo. E loro anche».

Un tuffo al cuore, mentre le sue parole mi ricordano quanto in questa storia io sia tutt'altro che un semplice spettatore.
«E tu? - gli chiedo - Immagino che tu cambi la realtà scrivendo qualche versione brutta de La pioggia nel pineto»

Il Maiale scoppia a ridere.

«Oh, davvero delizioso questo patetico tentativo di defibrillare il tuo sense of humor! Lui lo apprezza davvero tantissimo. No, davvero! Ognuno ha il suo modo di raccontare il mondo. Prendi lui. Lui immagina intensamente le donne di cui é innamorato e dà loro vita...»
Vampirella lo guarda con l'aria rapita.
«... masturbandosi selvaggiamente», conclude il Maiale con un ghigno.




martedì 11 agosto 2009

7. Garanadabalavataqasa

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Trenta minuti fa, finisco di mentire ai miei genitori.


«Come va?».
«Bene, mamma».
«Hai una voce strana».
«E’ il caldo. Oggi fa un mucchio di caldo».

Mi racconta di quanto faccia caldo anche lì da lei, in Sardegna, di come lei e mio padre abbiano passato la giornata, di quella sua amica che mi saluta e quell’altra che oggi si è fatta sentire. La ascolto sforzando di rendere la voce più sorridente possibile.
Davanti a me, lo sgabuzzino in cui abbiamo ucciso l’Agente.


«Agente di cosa?», ho chiesto a Valentina qualche minuto dopo che è morto, qualche minuto in cui né io né lei abbiamo spiccicato parola.
Una settimana fa, per la cronaca, anche se adesso – mentre scrivo – potrebbe essere passato anche solo un pomeriggio.
«Agente della Coerenza. Agiscono per aggiustare la coerenza narrativa del mondo. Funzionano come correttori di bozze: quando trovano qualcosa che sconvolge la trama, la mettono a posto. O la cancellano», aggiunge, con un sorrisetto tetro.
«Ma quale trama?»
«La trama del mondo. Delle nostre vite. Di tutto quanto ciò che esiste».
Sono rimasto zitto per non so quanto, con quella voglia impellente di chiudere gli occhi e dormire che mi prende tutte le volte che sono molto spaventato o nervoso.
«E chi l’ha scritta questa trama? Per chi lavorano, insomma?»
Si è stretta nelle spalle, scuotendo la testa. «Boh».


Sette giorni. Mentre sono qui, a trovare il tempo di buttare giù due righe per sfogare un po’ di tensione, mi sembra di essere in questa villetta da sempre. In tutto questo periodo non sono mai tornato nemmeno una volta a casa mia. Si sono susseguiti strascichi di paranoia lunghi come dieci veli da sposa. E il senso di colpa. Il senso di colpa per qualcosa che non avevo fatto, giusto?
Perché se qualcuno improvvisamente non riesce più a respirare da solo, non è colpa mia. Non è nemmeno lontanamente giusto che io pensi il contrario.
E’ stata Valentina a far sparire il corpo. Non so cosa abbia fatto, non so nemmeno dove l’abbia portato. Gliel’ho chiesto solo una volta.
«Da qualche parte oltre l’arcobaleno», ha risposto distrattamente.
Non le ho chiesto altro.


A tutte le altre domande che le ho fatto nei giorni successivi, invece, è stata lei a non darmi mai risposta. Via via mi è venuto sempre più il dubbio che non le conoscesse, queste risposte. Che non conoscesse niente.
Anche adesso, se le chiedo qualcosa di più su quello che dobbiamo fare, se è sicuro stare qui o non convenga invece scappare da qualche parte e se esiste un posto sicuro, mi tratta come se la faccenda non la riguardasse troppo.
Quello che succede, succede. Questa è la sua risposta solita, sempre con quel tono svagato e incurante. Non freddo, gelido o che. Incurante.


Verso il secondo giorno (o il terzo? Non ricordo più) da quando abbiamo ucciso l’Agente, si è fatta sempre più silenziosa. Ha smesso di rispondere a ogni domanda, anche le più banali, restando a guardarmi come se facesse fatica a riconoscermi.
Le ho chiesto cosa le stesse succedendo. Ha scrollato la testa.

«Hai un’idea del perché, in un mucchio di storie, prima o poi succede sempre qualcosa di brutto?», mi ha domandato poi.
È toccato a me scrollare le spalle. «Forse non sarebbero abbastanza interessanti, altrimenti».
Ha annuito. Poi si è alzata dalla sedia e mi ha abbracciato stretto e mi ha baciato.
Non sapevo cosa rispondere. Non lo saprei nemmeno adesso.


Due giorni fa, mi sono accorto di qualcosa di strano.
Facevo fatica a metterla a fuoco.
Ad accorgermi di lei, a includerla nel mio orizzonte percettivo. Sussultavo quando la sentivo parlare, che magari era già nella stanza da ore ed ore e non l’avevo vista.


«… scommetto», mi ha chiesto.
«Eh?».
«Fai più fatica ad accorgerti di me, scommetto».
Ho dovuto ammettere di sì. L’ho vista sorridere di quel sorriso un po’ troppo triste e consapevole.
«E’ perché il Maiale si sta stancando di me. Tra poco scomparirò fino alla prossima volta».
«Ma chi è questo Maiale? E tu cosa…».
Mi ha appoggiato l’indice davanti la bocca, per zittirmi.
Mi ha baciato di nuovo.
Aveva un’espressione stanca, rassegnata, serena e sensuale. Tutte queste cose, tutte queste cose insieme che non c’entrano un granché, tra di loro.


Oggi, finisco la telefonata con i miei che sono da solo, in casa. Valentina se n’è andata: deve essersene andata stanotte, senza tanti saluti e tanti complimenti.
Non so dove sia andata, non riesco a meravigliarmi nemmeno troppo della sua assenza. Ieri, già, la percepivo come una sorta di intermittenza. Una presenza intermittente.
Dovrei essere parecchio arrabbiato, per quello che sta succedendo: perché sono da solo, e non so che cosa fare, e non ho idea di quando qualcun altro di loro – siano questi Agenti o più semplicemente la polizia – verrà a cercarmi.
Penso all’espressione che aveva quella volta che mi ha baciato, e non riesco ad avercela con lei.


Cinque minuti fa, un’altra telefonata da un numero sconosciuto. Ho lasciato squillare a lungo.
Alla fine non ce l’ho fatta più e ho risposto.


«Il Maiale è pronto a riceverti», ha detto la voce di una donna.
Una voce diversa da quella di Valentina. Somigliante, sì, ma diversa.


martedì 4 agosto 2009

6. Damanapavara

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Ora che sono passati un po' di giorni, posso dire che è andato tutto storto.
Tutto, tutto quanto.
Adesso, mentre sono qui a scrivere, penso solo che non so quanto mi resti ancora prima che mi vengano a prendere. Che ho una paura fottuta e non avrei mai voluto entrare in tutto questo.

No, non è vero. Ho anche avuto un'occasione per fare una scelta.
Andiamo con ordine.

Eravamo rimasti a me, che guardo quella foto.
Valentina è lì a fissarmi. Si aspetta che dica qualcosa, un commento, una frase qualunque. Riguardo la foto: realistica, non c'è dubbio. Peccato che, più la guardo e meno dubbi ho: sono l'unico elemento disegnato in quell'immagine. C'è anche uno sbaffo di pennello, all'altezza del braccio che mi fa male.
Gliela restituisco. Non dico niente, ho visto male io.
Riprende la foto.
«Sei disegnato», mi dice.
«Come?», le faccio con il sorriso di uno che non ha ben capito di cosa si stia parlando.
Il suo sguardo, un po' più triste di prima, è tutta la sua risposta al mio squallido bluff.
Non faccio nemmeno finta di ripetere un altro come?

Valentina si alza dalla poltrona.
«Mi segui?»
E' diversa, adesso. In realtà, me ne rendo conto adesso, mi ha sempre dato un'impressione strana... è come se la percepissi sempre un po' più differente dall'attimo prima. Altera, amichevole, distante, seducente, amabila, gelida. E non dà mai l'impressione di cambiare veramente: ogni volta è come se fosse sempre stata così com'è.
Mi lascio guidare da lei, fino alla porticina di uno sgabuzzino, uno di quelli in cui mettere le scope e i prodotti per la casa.
Apre. Anzi, non apre: spalanca.

Dentro c'è un uomo, legato e imbavagliato. Qualche meccanismo del mio sistema di sospensione d'incredulità dev'essere saltato, perché non me ne stupisco affatto. Non mi stupisco nemmeno di riconoscere la faccia dell'uomo che è venuto a prendere Valentina in stazione.
«Fascista carogna...», mormora lei.
Lui mugola qualcosa, guardandomi con un'espressione disperata. Anche Valentina mi sta fissando.

«Ascolta - mi dice - io non credo di riuscire a gestire la situazione da sola. Non... non fa parte esattamente dei miei compiti, diciamo, e ho un tempo molto, molto, molto limitato».
Mi zittisce subito quando sto per replicare. «Fammi finire. Ti dicevo, ho poco tempo e non so quando verrò chiamata ancora dal Maiale, quindi è meglio sbrigarsi».
Si china sull'uomo e mi lancia un'ultima occhiata.
«Cosa intendi per gestire la situazione?», le chiedo.
Non mi risponde, strappa il bavaglio dalla bocca dell'uomo che guarda subito verso di me, disperato.
«ASCOLTAMI! Questa ragazza è pazza. E' mia nipote e sta davvero male. E' stato suo padre ad affidarla a me, io sono un medico. Sono uno psichiatra... pensavo che stare un po' qui a Rimini, rilassandosi, potesse fare qualcosa per i suoi disturbi...»
«Silenzio - sibila lei, voltandosi nella mia direzione - Non credere a una sola parola. E' un Agente della Coerenza. Uno di basso livello, non una Classe Babau, ma pericoloso. Mi sta inseguendo da quando ho messo piede a Bologna perché il Maiale mi ha ordinato di cercarti».
L'uomo scuote la testa. «Ecco, la senti? Certo che l'ho seguita, era scappata di casa! Non fa che delirare su questi personaggi assurdi. E' diventata incapace di distinguere la realtà! Per fortuna uno dei suoi amici ha fatto la gentilezza di chiamarmi, così che potessi tornare a prenderla».
«Sciocchezze - Valentina scuote la testa - Quando mi ha catturato in quel bar in cui mi hai vista, mi ha strattonato fino ad arrivare dietro alla stazione. Non c'era nessuno. Il posto ideale per divorarmi. Poi...».
Di nuovo, l'altro la interrompe.
«Giovanotto, per favore, ascoltami. Mi ha seguito fino in stazione, ha fatto finta di fare la brava. Abbiamo preso il treno. Ha dormito tutto il tempo e, quando siamo arrivati qui in casa, quando le ho voltato appena le spalle per un momento...».

Si ferma anche lui. Restano bloccati a guardarmi.

E io non so cosa fare. Io riesco solo a pensare che vedere un uomo legato e imbavagliato davanti a me passa in secondo piano, rispetto al resto. Rispetto al fatto che non mi sta chiedendo alcun aiuto, non mi sta pregando di fermare Valentina, chiamare la polizia o che.
Perché in realtà...
«Oh cazzo», riesco solo a dire, quando lo capisco.
Non gliene frega niente di essere aiutato. Gli importa solo che ascolti la storia.
Tutti e due. Cercano di raccontarmela con un tono sempre più concitato, sempre più convincente. Tutti e due vogliono che ci creda.
No, nemmeno.
Me ne rendo conto quando li vedo fissi a guardarmi. Fermi. In attesa.
Vogliono che la continui. Che scelga quale delle due continuare.

«E'... è assurdo».
«Cosa è assurdo? La sua versione, vero?», mi chiede l'uomo, indicando Valentina con un un cenno della testa.
Sto lì impalato. Non ci credo troppo nemmeno a quello che sto per dire.
«... A quel punto, Valentina ti ha tranciato la gola con un colpo di taglio. Quand'eravate dietro la stazione. Non è bravissima a combattere, ma ha imparato a gestire questo genere di situazioni dopo anni di addestramento. Altrimenti, perchè avrebbero mandato lei, a prendermi? Non è servito a metterti fuori gioco del tutto, perchè tu non sei davvero umano, ma è bastato a sfiancarti in modo da portarti qui ed esorcizzarti via in modo definitivo».
L'uomo ride.
Ride, esasperato, divertito. Ride per un minuto buono, facendomi sentire sempre più stupido.

Poi tossisce.

Risucchia l'aria, il respiro.
Lo guardo terrorizzato.
«Grazie al cielo - mormora Valentina dietro di me - il potere degli Agenti della Coerenza arriva dal consenso della gente, da quanto chi li circonda crede a loro e alle loro parole. Fortunatamente in queste situazioni, quando ad alimentare il loro potere è una sola persona, combatterli diventa una faccenda gestibile».

Non la sto ascoltando nemmeno.
Guardo l'uomo diventare cianotico, continuando a ingurgitare brandelli d'aria, senza nessuno che lo aiuti.

... è in quel momento che realizzo quanto le cose - da qui in poi - si faranno strane.

lunedì 27 luglio 2009

5. Maganatarasalavadaqa

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La chiamo. Dopo un'interminabile attesa risponde e, senza nemmeno salutare, dice dove e quando.
Il giorno dopo, sono un treno per Rimini. Uguale uguale ai miei racconti. Nelle mie storie, Rimini c'è quasi sempre. Non so perché, a volte trovo anche motivazioni plausibili: c'è questa ragazza che ho conosciuto su un forum degli Einsturzende Neubauten, ad esempio, che era di qui; a volte, invece, il fascino per questa città è qualcosa di più vago, che ha a che fare con l'odore di sabbia e la luce. Quella luce che sembra avere una tonalità molto più accogliente, rispetto alle parti mie.

Fatto sta che mi ritrovo a percorrere la strada che conduce alla darsena. Scende giù in quel sottopassaggio che, d'estate, diventa pieno di passanti in teli da bagno e biciclette che salgono e scendono dalle piccole rampe incastrate in mezzo ai gradini. Una specie di tunnel di passaggio.
Qui ci sono un mucchio di villette basse e simili alle vecchiette locali: non ti levano gli occhi di dosso, ma almeno tengono un contegno più amichevole di quelle delle altre città.
Suono a uno di questi cancelli, lungo la via che porta alla spiaggia.
Qualcuno apre.
Entro.

*
«Sapevo che avresti accettato», dice lei, mettendo su un disco.
Mi arrivano solo pochi smozziconi di testo, tra una pausa di silenzio e l'altra. Una voce femminile che non canta, recita. Nada, forse?

chi ha le pistole le carichi, chi ha i coltelli li lucidi, chi ha le parole si metta davanti a uno specchio a provare che cosa dire per colpire.

«Io invece non mi aspettavo di vederti. Mi sembravi molto impaurita, quando quell'uomo è venuto a prenderti».
Stringe lo sguardo. Quello sguardo pieno e pieno di parole, da attrice del muto.
«Per un attimo, è riuscito a cancellarmi. Poi, il Maiale mi ha richiamata».
«Cancellarti? E chi è il Maiale?».
Si stringe nelle spalle con noncuranza. «Lo conoscerai a tempo debito. Il punto è un altro».
La vedo prendere una vecchia Polaroid dalla borsetta. Credo di non vederne una dalla mia ultima gita scolastica al liceo... abbastanza anni fa.

«Di che cosa parlano i tuoi racconti? Quello su Michael Jackson, ad esempio»
Mi schiaccio, a disagio, contro la poltrona. Il mio sguardo va da un punto all'altro di questo salotto che sembra uscito da quegli scenari da anni Settanta post-moderni, coi tavolini bassi di plastica colorata e i lampadari allungati e minimalisti.
Peccato che io mi sento come quando parlavo ai carabinieri, tre settimane fa.
«Senti, avevo capito che mi avresti dato risposte. Voglio solo sapere cosa sta succedendo in questi giorni».
«E' importante, davvero».
«Ho fatto male a scrivere di Jackson, vero? Cioè... sei tu che mi hai mandato quei messaggi?»
E come hai trovato il mio numero? E come hai trovato me?... va bene. Un passo alla volta, mi dico.
«No. Il racconto che avevi scritto? di cosa parlava?».
Ha un tono sbrigativo, come se fosse davvero urgente scoprirlo. Le viene maledettamente fuori l'accento milanese.
«Hanuman era il protagonista. E' anche il nick con cui mi firmo un po' in tutti i forum e le piattaforme in rete. E' preso da un dio scimmia indiano, che passa dall' essere un fuorilegge a un Buddha», le spiego.
«Ok. E nel tuo racconto chi è?»
«Uno scrittore-stregone. Un terrorista convinto che, se scriverà della morte di Michael Jackson, Jacko morirà. Ho pubblicato questa storia su un blog, poco tempo fa, firmandomi Hanuman. Ho mescolato fatti miei con fatti inventati. Ho scritto che più gente avrebbe creduto a quello che raccontavo, più le possibilità che Michael Jackson morisse sarebbero aumentate».
Annuisce, senza staccarmi gli occhi di dosso. «Michael Jackson è morto».
«Sì... e questo lo so pure io - butto via il fiato, insieme alla risposta - Ma non c'entro, io. Non è che gli ho fatto davvero un voodoo»

Valentina si alza. Rimugina su quello che le ho detto, e lo fa con un'espressione da bambina corrucciata. La fronte aggrottata, un dito che si morde leggermente.
«Ti va un po' di vino?», mi chiede poi.
*
Non sembra proprio a suo agio, mentre cerca vino e bicchieri. Si aggira persa da una credenza all'altra, quasi che la casa non le appartenesse.
La vedo fare andirivieni e qualcosa me la fa già sentire distante, irraggiungibile. Ho una voglia improvvisa - davvero - di saltarle addosso, di stringerla forte come non ho mai fatto con nessuna delle ragazze di cui mi sono innamorato e che mi sono lasciato sfuggire.
E mi sembra incarnarle tutte, lei: lo sguardo ironico di una, l'aria misteriosa di un'altra, i modi di fare confidenziali e terra terra di qualcuna che potrebbe essere la tua migliore amica e l'aria sofisticata di qualcun'altra che è su questa dimensione solo di striscio.
Torna con una bottiglia di bianco e due calici. Li riempie, li facciamo tintinnare.

«Il fatto è che non dovresti sottovalutare la fantasia», dice lei, guardandomi in tralice mentre sorride.
Si sporge verso di me. «Cos'è che scrivevi? L'immaginazione è potere. Più intensamente immagini qualcosa più la farai diventare reale. Ti assicuro che era da molto tempo che non succedeva qualcosa del genere. E adesso c'è chi ti sta cercando, Hanuman».
Per un momento, la situazione ha un tale grado di assurdità che passo sopra all'essermi sentito appena citare le mie stesse parole, pari pari.
«Senti, io ho scritto solo un racconto. Michael Jackson è morto perché... beh, perché doveva morire. E non mi chiamo Hanuman, quello è il nome di un personaggio inventato».

Valentina prende la Polaroid e mi scatta una foto a tradimento, prima che possa aggiungere qualunque altra cosa.
La foto esce dalla fessura della macchinetta con un ronzio. La prende, e la scuote un paio di volte per asciugarla e farla sviluppare più velocemente. Poi non la guarda nemmeno, me la tira addosso.
«Tu sei Hanuman e, anche se cambi le carte in tavola ogni volta, credo che non smetterai tanto presto di esserlo».

Nella foto, lì per lì, non mi sembra ci sia nulla di eccezionalmente strano. A parte una mia aria un po' da tonno.
Poi guardo meglio... funziona come in quei quadri dannatamente realistici, sapete? Ci vuole un po' per accorgersene.
Lo sfondo è uno foto, sì. Il salotto, il bicchiere, la poltrona in cui sono seduto.

Sono io, l'unico particolare chiaramente disegnato.
Disegnato.

sabato 18 luglio 2009

4. Qasatabalagavaranacama

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La penso con quella strana pretesa di doverla ritrovare ovunque, ora che ci siamo incontrati.
Nei giorni dopo, cerco di rintracciarla.
Salgo sull'autobus in cui ci siamo incontrati. Ripercorro a piedi la strada tra una fermata e l'altra. Faccio cadere il discorso su di lei: vuoi mai che qualcuno salti su, dicendo che la conosce.

Dopo due o tre giorni in cui sono impegnato a pedinare spettri, decido di rinunciare. Darla su, come si dice dalle nostre parti.
Seduto a bermi un the freddo in uno dei pomeriggi più caldi che ricordi, tutte le mie forze sono impiegate nell'unica cosa che non sono mai stato capace di fare: trovare una spiegazione razionale a quello che mi sta succedendo nelle ultime settimane. A tutti gli strani incontri, le frasi che mi hanno lasciato con un brivido addosso, la sensazione di trovarmi in uno di quei fumetti senza sfondi e coi personaggi che dicono frasi poco chiare.
L'unica decente è che stia diventando molto paranoico. Davvero molto. O che, al contrario, mi piaccia maledettamente immaginarmi di essere al centro di qualcosa di strano nell'aria. Mi piaccia così tanto da filtrare qualunque cosa, anche la più normale, sotto quest'ottica.

«Posso sedermi?».
Subito penso che sia lei.
Non è lei, ovviamente. Non l'ho mai vista prima, eppure quacosa di familiare ce l'ha.

Prima che possa risponderle, le sue mani sottili stanno facendo a pezzi il tovagliolino di carta sul mio tavolo. Le mani curate, con le unghia lunghe e lucide.
«Io sono Valentina», mi dice col tono di voler mettere in chiaro le cose. Come se fosse un concetto chiave per andare avanti nella conversazione. Non dev'essere di qui. L'accento ha più di Milano, che di Bologna.
Ha la pelle bianchissima, su cui la linea del naso si perde come se l'avessero appena abbozzata con la china. Gli occhi e le labbra sono gli unici particolari davvero marcati e profondi, insieme ai capelli: un pesante caschetto nero, un po' retrò, da attrice anni Venti.
«Io sono... »
Si mette un dito davanti alle labbra. Mi fa specie quanto le sia facile zittirmi, guardandomi solo.
«Ascolta, non abbiamo molto tempo».
Butto giù un sorso di the. Ecco, la volevo così tanto. E' tornata la paura.
«No. Ho bisogno di sapere cosa sta succedendo»
«Shh, stai zitto un secondo - si sporge verso di me - Non sono molte le tavole in cui poterti spiegare come stanno le cose. Tra qualche pagina, gli Agenti della Coerenza mi riprenderanno».
«Dio buono, cosa cazzo è, questa storia?»
Lo sguardo le saetta verso l'uscita del bar. Mi attacca abbastanza tensione da spingermi a fare altrettanto. Niente. La stazione dei treni davanti, un paio di pendolari a mangiare di fretta un panino prima di partire, il barista che sta discutendo con un ragazzino per una questione di resti.
Ma che ci aspettavamo che ci fosse?
«Me l'ha detto il Duca Stregatto. Me lo ha divinato usando i Tarocchi di Propp».
«I Tarocchi di Propp?».
Scuote la testa. «Ti ho già detto che non c'è tempo. Mi ha detto di dirti questo: chi ha le pistole le carichi, chi ha i coltelli li lucidi, chi ha le parole si metta davanti a uno specchio a provare che cosa dire per colpire - si morde le labbra, poi aggiunge il resto di fretta - Senti, vediamoci tra una settimana a questo indirizzo. Ti faccio delle foto».
«Foto?». Ormai non capisco più niente. Guardo il nome sul biglietto da visita che mi allunga quasi di nascosto, sfiorandomi le dita.
Valentina Rosselli.
«Anna, scusa se ti interrompo... se non ci sbrighiamo, ci tocca fare una corsa per il treno».
La vedo sussultare. Nemmeno io sono tranquillissimo, quando sento quella voce profonda, baritonale sopra di noi. Alzo lo sguardo.
Se fosse suo marito, direi che è troppo vecchio; se fosse il padre, direi che è troppo giovane. Chiunque sia , mi fa un sorriso da professionista dell'educazione, mentre porge una mano a Valentina per farla alzare.
«Anna?», sento la mia stessa voce gracchiare. Un vero babbeo.
L'uomo (assistente sociale?) mi rivolge un altro sorriso. «Oh, non si sarà presentata come Valentina, vero? E' ossessionata da quel fumetto. Si è pettinata anche per assomigliare alla protagonista».
Ride.
Ride anche Anna/Valentina. Il barista si volta verso di noi, facendo finta di niente, a voler vedere che accidenti abbiamo da star così allegri.
Personalmente, nulla di nulla.

Mentre se ne vanno, la vedo voltarsi verso di me. Mi sussurra di chiamarla.
Ha lo sguardo terrorizzato.

lunedì 13 luglio 2009

3. Naragazamavalasadataqa

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Giorni in cui cammino a testa bassa, annusando l'aria, sperando di ritrovarla elettrica e pericolosa come mi era sembrato capitasse sempre, in questi ultimi tempi. E, invece, mi trovo a sbattere il muso contro pomeriggi piatti quanto un foglio.
Deambulo sotto il sole di luglio, in una Bologna che fa altro che sbadigliarsi addosso. Sono il perfetto protagonista di un film di zombie. E no, non sono quello con la motosega.
Su e giù per Bologna, armato di un walkman a cassette che - come me - è miracolosamente sopravvissuto alla fredda legge della catena alimentare e dell'evoluzione della specie.
E' strano rimpiangere tutte le volte in cui mi sono spaventato nelle settimane scorse.

Sul 36, per via degli Orti, siamo una tribù di sconosciuti che si squadrano e si prendono le misure a vicenda. Un tacito patto di non belligeranza ci permette di non rivolgerci nemmeno la parola, di far finta di non esistere l'uno per l'altro.
Una signora raccomanda a un'altra, seduta davanti a lei, che non dobbiamo dimenticarci dei meridionali.
Non è giusto dimenticarci dei meridionali. Di quanto siano ladri e disonesti, dice.
L'altra signora annuisce entusiasta: certo, non è che adesso tutto passa in secondo piano perché ci sono gli albanesi.
Proprio accanto a me, una coppia di nord africani le fissa entrambe, con la faccia di sentirle senza ascoltarle. Sono un uomo e una donna: lei dorme sulla spalla di lui. Non è una ragazza incredibilmente bella, ma vederla sorridere nel sonno mi mette una strana sensazione di tranquillità, addosso.
Dall'altra fila di sedili, un bamboccio ciccione sta parlando al cellulare.
«Perchè io quando mi incazzo, mi incazzo», dice.
Resta zitto per un attimo. «C'ho degli amici, io».

Guardo fuori dal finestrino: ovviamente non riesco a capire dove siamo. Non ci riesco mai. Riconosco la penultima fermata: quello che c'è da lì alla prima è tutto paesaggio che si srotola via via. L'autobus si ferma, caricando la prossima infornata di persone.
Una ragazza con una cascata di capelli ricci, rossi, si ferma vicino a me. Mi volto verso il finestrino, che magari non la metto a disagio. Nel riflesso, la sua faccia ha la pelle bruciata di lentiggini e abbronzatura.
Si mette a disegnare su un taccuino, con una matita e una gomma che tira fuori da una tracolla marrone.
Tre, quattro linee per buttar giù l'interno dell'autobus in cui stiamo viaggiando. Un paio di graffi e l'ha già popolato delle due vecchie razziste di merda, della coppia di neri, del bimbo che ha gli amici.
Mi picchietta il dorso della mano con la matita.
«Ti piace?», mi fa.
«Sì, molto», le dico. E ovviamente, mi sto vergognando come un cane, per essere stato scoperto mentre sbirciavo.
«E comunque, scusa», aggiungo. Tanto per.
«Di cosa?»
«Di averti guardato...», faccio io, che mi sento sempre più stupido.
«Ah», risponde lei. La vedo corrugare la fronte, come se il concetto fosse troppo complicato. Poi sorride e torna a indicarmi il foglio.
«Chi uccidiamo, di questi?»
«Uccidiamo?».
«Sì. Chi facciamo sparire. Ma dico proprio sparire per sempre».

Resto a guardarla, cercando di trovare una battuta abbastanza a tono.
«Vedi? non fanno niente tutto il giorno e poi dormono anche», dice la vecchietta razzista, indicando alla sua degna comare la coppia di neri.
Al diavolo la battuta a tono.
«Senti, fai schiattare 'sta vecchia del cazzo, per favore?».
Scrolla le spalle. «Ok».
La cancella dal foglio. Mentre lo fa mi chiede: «Ti piacciono i film di Charlie Chaplin?».
«Mai visti molti». Non riesco a cavarmi la progressiva sensazione di essere sprofondato in un episodio di Twilight Zone.
And now, Rod Serling!
«Io vado matta per Il Grande Dittatore. EHI! - sbotta lei, alzando la voce - A QUALCUNO PIACE CHARLIE CHAPLIN? QUELLO LI', IL TIZIO CON LA BOMBETTA CHE SOMIGLIA A HITLER!»
Torno a guardare dal finestrino.
La nord africana addormentata si sveglia per un momento. Si guarda intorno per un istante, poi si riaddormenta sulla spalla del marito, che le fa una carezza sulla guancia. Il ragazzino ciccione smette per un attimo di minacciare la gente al telefono. Poi ricomincia subito. La vecchietta brontola qualcosa e sistema la spesa sul sedile vuoto davanti a lei.

«Vabbeh, non è che adesso deve starvi addosso perché somiglia a Hitler», fa la ragazza vicino a me.
«Ma a te perchè i suoi film piacciono tanto?», le chiedo.
«Boh, fanno ridere».

Solo adesso mi rendo conto che quel sedile dove c'é un sacco della spesa, una volta era pieno di una vecchietta razzista.

«Ehi... hai visto chi è sceso?», dico alla ragazza, con un sorriso che mi esce un po' stirato.
«Non è scesa. E' morta», risponde lei, con l'aria più naturale del mondo.

venerdì 3 luglio 2009

2. Mapaganaradasafacata

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Per una settimana, va tutto bene.
Grossomodo bene.

Negli ultimi giorni, gli unici momenti in cui la mia vita ha incrociato di striscio quella di Michael Jackson sono stati il solito ce l'hai fatta, eh?, che i miei amici hanno preso gusto a rivolgermi.
Cristo, ho solo scritto un racconto. Di cattivo gusto, ok, ma pur sempre un racconto.
Anche se, tutte le volte che i giornali hanno parlato di circostanze misteriose, in questi giorni, la frase mi è sempre andata un po' di traverso.
Nessun altro messaggio minaccioso, però. Dopo qualche giorno lasciato ad accumularsi e prender polvere, posso decisamente dire che quello di una settimana fa era davvero la presa in giro di qualcuno.
Devo solo capire chi sia stato. Questo simpaticissimo stronzo.
Così, ogni preoccupazione passa. Almeno, fino a ieri sera.

Succede che ci fermano, me e Nicola, mentre facciamo il solito tratto Bologna-Imola del giovedì sera. Carabinieri.
Come ogni volta, mi viene da innervosirmi. E' stupido, ma succede sempre, quando mi fermano. Mi viene da stare sul chi vive, da soppesare le parole... da avere quest'impressione appiccicata che, se non capisco bene cosa dicono, mi spareranno addosso.

«Buonasera. Documenti».

Li chiedono a entrambi. Prego il Signore, qualunque Signore sia, di non essermi dimenticato a casa la carta d'identità, come succede sempre.
Il carabiniere guarda i miei documenti con un'espressione dubbiosa. Un po' tipo un primate al cospetto del monolite nero di 2001.

«Può uscire un attimo, per favore?», dice poi.

Rimango per qualche minuto a guardarlo, con la faccia inebetita.
Me lo ripete, più spazientito. Sbuffa, e mentre si volta verso il collega, me lo vedo già che mi spara.
Esco. Anche Nicola, corruga la fronte.
Quando esco, l'attacco è così, secco, senza troppi preamboli.

«Cosa stavate facendo?»

Non mi sforzo nemmmeno di essere gentile. Ogni volta che ci provo e sono nervoso, sembro semplicemente ubriaco.
«Tornavamo da una riunione con alcuni amici... stiamo scrivendo un libro insieme», buttò là, servisse mai ad alleggerire.
Neanche da lontano.

«Che libro?»
«Fantascienza».

Il carabiniere guarda il suo collega. D'accordo, mi aspetto da un momento all'altro qualche parere non richiesto sui libri che legge lui o che dovrei scrivere io.
Poi mi rendo conto della loro espressione. So di sembrare molto paranoico, ma sembra più preoccupata. D'intesa. Come se avessero trovato o capito qualcosa.

«Senti, ma... - attacca di nuovo il carabiniere - Tu la guardi la televisione?»
«Poco», gli rispondo. Lì per lì penso sia una domanda per spezzare la tensione, roba così.
«E che tipo di roba ti piace?»
Adesso non credo sia più solo un'impressione mia. Ha uno sguardo che non mi piace affatto.
«Telefilm. Horror, fantascienza... quel genere di cose». Potrei anche dargli qualche titolo, ma per un momento ho paura che peggiorerebbe la situazione. Ma quale situazione deve peggiorare?
«Mmm», risponde lui, continuando a guardarmi. Anche il suo collega mi sta guardando.
«Posso andare?».
Non mi risponde, rimugina per qualche altro secondo.

«Quindi ti piace questo genere di storie... un po' fantasiose, diciamo», mugugna poi.
Non capisco niente. Non mi sembra un tentativo di fare conversazione. No, cazzo, sembra tutto fuorché un tentativo del genere.
«Sì».
«Capito».

Si scambia ancora uno sguardo col collega. Il collega annuisce, con qualche riserva tutta piantata nel modo di rispondere all'occhiata.
«Vabbeh, puoi andare», fa il carabiniere. Adesso ha una faccia infastidita, una faccia da togliti fuori dai coglioni.

Rientro.
«Sei stato sotto un bel po', eh», fa Nicola.
Annuisco.

Ho una paura fottuta finché non torniamo a casa. E resiste anche adesso, che cerco di inchiodare tutto, parola per parola, sul monitor del mio computer per prenderne in qualche modo le distanze e riderci sopra.
Ma non ci riesco troppo bene.